Ideali e cultura. Non sono i primi sostantivi che vi vengono in mente parlando di cibo ma sono i fili conduttori che cuciono i lembi variopinti della chiacchierata con Sara Nicolosi. È uno dei 3 volti di Altatto, catering e bistrot che in poco tempo è diventato un punto fermo nello skyline della ristorazione milanese. Tutti i discorsi sono permeati dal concetto di coesione. Sara racconta il suo punto di vista ma i verbi spesso vengono coniugati alla prima persona plurale: l’unità d’intenti con le altre socie fondatrici, Giulia Scialanga e Cinzia De Lauri, è totale. Come dita di una mano che non possono fare a meno l’una dell’altra: un triumvirato, senza gerarchie precise, solo competenze che si intrecciano.
ALTATTO: COESIONE, SOSTENIBILITÀ E CUCINA CONSAPEVOLE
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La vostra storia sboccia nelle cucine di Joya, il ristorante stellato di Pietro Leemann. Lo chef ti definisce “passionale e determinata, se necessario spacca il capello in quattro”. Ti ritrovi in questa descrizione?
Sono stata 3 anni in quella cucina, con lui si è costruito un rapporto di grande stima. E i suoi consigli nell’apertura della nostra attività sono stati fondamentali. Mi riconosco nelle sue parole, in effetti sono una po’ ossessionata dalla cucina. È il mio pensiero fisso, ma perché mi diverto. Siamo partite con un po’ di incoscienza, mettendo 8.000 euro a testa, senza investitori e siamo riuscite a costruire qualcosa di cui siamo orgogliose e innamorate.
Come definiresti Altatto?
È il mio bambino, anzi il nostro (scoppia in una risata, ndr). È uno spazio preziosissimo di espressione. Catering, bistrot, baretto, delivery: siamo in continuo movimento e questo è frutto della nostra determinazione.

Non c’è una leader? Siete tutte intercambiabili?
No, non ci sono gerarchie. Conta il progetto più che le persone. Vogliamo sfatare l’idea che lo chef debba essere per forza una personalità. Da noi conta il collettivo. Sappiamo che ci sono dei ruoli, ma li conosciamo noi e a volte si scambiano.
Ci racconti Giulia e Cinzia?
Giulia è una persona con un carattere meraviglioso. È la calma del gruppo, mette tranquillità a tutti, non perde mai il controllo. È bravissima ad ascoltare. Cinzia ha una forza unica, senza di lei di sicuro non sarei qui. Io sono la pessimista del gruppo, lei invece è pratica, coraggiosa. Per esempio è merito suo se abbiamo trovato la forza di aprire il bistrot. C’è una stima reciproca pazzesca tra noi tre, ogni piccolo conflitto si risolve in tempi rapidissimi. E ci tengo a sottolineare anche l’importanza di Caterina Perazzi e Agostino Brambilla che lavorano con noi.
Prima del bistrot si era materializzata l’opportunità di aprire un ristorante.
Sì, una nostra cliente molto facoltosa si era proposta di aprire per noi un ristorante. Lei voleva fare business, noi siamo figure sognanti poco disposte a fare compromessi. Non se n’è fatto nulla ed è stato meglio così. Ora siamo libere e possiamo lavorare nel rispetto dei nostri ideali.

Quali sono i valori fondanti del progetto?
Sicuramente il gruppo e il gusto. Volevamo creare un ambiente creativo e rispettoso dell’ambiente. Fare cucina buona e sostenibile. La sostenibilità è un punto centrale: fornitori vicini a noi, menu microstagionali. Poi c’è un aspetto culturale, relativo al nostro passato, ai nostri viaggi. Mi piace l’idea di ridefinire il concetto di autentico: per esempio possiamo fare un brodo che ti ricorda il Giappone senza usare ingredienti provenienti dal Giappone.
Hai mai avuto una crisi di rigetto nei confronti della cucina?
Ho fatto fatica all’inizio ad adattarmi ai ritmi della cucina perché ho tanti altri interessi. Non sono un animale da cucina, ho iniziato anche tardi a lavorarci. Secondo me il vantaggio di Altatto è di poter dettare i tempi. Prima del lockdown noi non abbiamo mai lavorato nei weekend, è stato il nostro modo per evitare il rigetto: abbiamo trovato un equilibrio. Detto ciò, quando mi chiedono di cucinare a casa mi ribello. Ogni tanto bisogna distaccarsi dalle passioni.
Quindi la pausa diventa un carburante per alimentare meglio il progetto?
Esatto, ci serve a decomprimere, staccare. È fondamentale per non stancarsi. Lunedì tornavo carica come una mina e rendevo molto di più. Poi è chiaro che anche a casa leggo cose di cucina ma lo faccio per curiosità.
All’università hai studiato Antropologia culturale con un primo anno a Scienze umane dell’ambiente. Quando scocca la scintilla con la cucina?
Una sera ero a una festa, non avevo voglia di spiegare cosa studiavo e allora ho raccontato che facevo la cuoca. Un ragazzo mi ha risposto: «Sai, mio padre ha uno studio di avvocati e ogni volta chiama delle signore a cucinare. Perché la prossima volta non vieni tu?». Ho accettato e con l’aiuto della mamma e le ricette della nonna ho fatto questo piccolo catering che ha avuto successo.
Però hai continuato a studiare antropologia culturale…
Sì ma nel periodo degli studi ho cucinato sempre per privati finché non mi sono resa conto che era la cosa che mi rendeva più felice. Poi ho fatto l’Alma, la scuola internazionale di cucina italiana, e ho capito che quella era la mia strada, anzi che forse avevo perso troppo tempo nell’imboccarla. All’inizio ho pensato che studiare altre cose fosse una penalizzazione perché ero in ritardo rispetto ad altri chef. Mi sembrava di rincorrere il tempo. Oggi penso che invece lo studio ti garantisca una forma mentale diversa: conoscenza e cultura sono alleate preziose per far evolvere la cucina. Se fossi cresciuta in una cucina avrei meno risorse.

Quanti anni sono passati dal primo catering con la mamma?
Risale a 13-14 anni fa. Il primo piatto? Dei semplici sablè al formaggio. Mi ricordo che però già allora avevamo fatto un catering ecosostenibile.
Cucini meglio di tua madre?
Sì, ma per le ricette classiche la chiamo per chiederle consigli. Sia lei che mio padre sono grandi appassionati, lui è un grande cuoco di pesce. Da ragazzina però volevo fare la biologa marina o la fotografa.
A proposito di cultura. Vi capita spesso di fare insieme dei viaggi di aggiornamento.
Quando si poteva facevamo un team building all’anno: siamo andate in Thailandia, a Tel Aviv, in Giappone, a Parigi. Per il prossimo, quando si potrà, vorremmo andare in Puglia. Poi ognuna di noi fa le ferie a parte, ma questi viaggi sono uno strumento di coesione molto importante.
Quali sono i bistrot a cui vi siete ispirate?
Qui a Milano mi piace tantissimo 28 posti, oppure Erba Brusca. Se dobbiamo sognare poi non posso non nominare il mio mito, Antonia Klugmann e il suo L’Argine a Vencò. A Parigi poi c’è Le Chateaubriand che è una stella cometa.
Non pensi che a Milano ci sia un’offerta un po’ limitata di ristoranti vegetariani?
Sì, e non me lo so spiegare. La domanda secondo me è alta, non solo perché ci sono tanti vegetariani.
Hai mai avuto paura che il successo potesse cambiare la vostra identità?
Non penso che la nostra attività sia di successo. In ogni caso secondo me siamo troppo salde a livello identitario per cambiare.
Ti ricordi una serata da incubo ed invece la migliore di sempre al bistrot?
Da incubo nessuna. Però una volta una signora che non sapeva a cosa fosse allergica. Ha visto il menu, ha assaggiato qualcosa e poi dopo 10 minuti se n’è andata dicendo «Mi sta venendo l’allergia». La più bella è stata l’inaugurazione, c’erano tutte le persone a cui vogliamo bene.
Com’è nata l’idea del delivery nelle schiscette?
All’inizio eravamo un po’ in crisi sul delivery. Abbiamo un po’ l’ossessione della freschezza e della temperatura dei cibi. Poi abbiamo rinunciato alla perfezione, abbiamo deciso di fare una cosa un pochino più semplice però forniamo un pasto completo all’interno di un contenitore, la schiscetta, che non è usa e getta. Questa è stata la vera rivoluzione. Una rivoluzione che stanno facendo i nostri clienti con noi investendo 10 euro la prima volta. Abbiamo comprato intorno alle 400 schiscette e abbiamo servito circa 1200 pasti. Una cifra infinitamente sopra le nostre aspettative: basti pensare che all’inizio ne avevamo comprate 30… La cosa bella sarebbe creare una rete tra ristoranti utilizzando le schiscette: a quel punto si avrebbe un risvolto ambientale davvero importante.

Questa iniziativa ha avuto successo ma che impatto ha avuto il Covid sulla vostra attività?
Abbiamo perso il 70% circa. Il nostro maggior introito è dato dagli eventi e quindi è stato un colpo pesante. Ci sono stati momenti in cui abbiamo anche pensato di chiudere. Cerchiamo di essere ottimiste ma è durissima. Ora dobbiamo salvarci, poi proviamo a riprendere a sognare.
Sognate di ingrandire la vostra attività?
Sì, il sogno è avere un ristorante vero. Magari vicino a dove siamo adesso. Non troppo grande ma con una bella brigata.
Come vedi il 2021?
Per ora abbiamo deciso di aprire a pranzo nel weekend, vogliamo continuare a proporre la nostra formula. La regola di non lavorare nel weekend è saltata, almeno per ora, ma a mali estremi, estremi rimedi.
Chiudi gli occhi e immagina uno chef famoso all’ingresso del vostro bistrot, magari dopo aver prenotato sotto falso nome. Chi vorresti? Non vale dire Leemann.
Escludendo quelli che conosco di persona, direi Virgilio Martinez. Sarebbe bellissimo anche se mi sentirei piccola e inutile al suo cospetto.
Altatto Bistrot
Via Comune Antico, 15
Sito Web – Pagina Instagram
Raccontare i volti oltre il cibo. Storia e umanità. Quando si “assapora” un nuovo locale si è spesso affamati anche di curiosità. Si notano i particolari, il piacere nel gustare il cibo è condizionato, anche più di quanto possiamo pensare razionalmente, dalla sintonia che si crea con l’ambiente e con i ragazzi che ci lavorano. A volte si ha la sensazione nitida di entrare in una casa, non in un ristorante, e proprio per questo è interessante conoscere pensieri, impianto valoriale e lampi di esistenza di chi ti invita ad entrare. Come si mangia è importante, anzi fondamentale, ma intrecciare il cibo con la vita rende l’esperienza ancora più intima.
Le interviste di A Milano puoi vogliono offrire un’altra chiave di ricerca quando si sceglie il ristorante da provare: l’idea è immergersi nella vita di chi lavora, un dietro le quinte diverso, un punto di vista originale per ampliare gli orizzonti, per capire qualcosa in più sulla ristorazione e magari varcare la soglia di un ristorante con in tasca già una fetta di empatia.